Un tuffo al cuore

Golf e Turismo    Giugno 2019    text & photo    pages  36 – 42

Pebble Beach è un nome che fa perdere un battito di cuore ai golfisti di tutto il mondo. Giocare su questo campo, dove sono state scritte pagine memorabili della storia del golf, è già di per sé una grande emozione ma farlo durante i preparativi per lo U.S. Open, con fairway e green perfetti e con qualche tribuna già montata è qualcosa che occorre condividere. 

Vi si arriva percorrendo la 17-Mile Drive che profuma di pini, di cipressi, di oceano. Una strada lungo la costa del promontorio di Monterey, con rocce a picco, arenili di sabbia bianchissima e calette più riparate, fino a una spiaggia di semplici ciottoli. Pebble in inglese, appunto. 

Il terreno di gioco si appoggia con naturalezza sul prolungamento della spiaggia e sulle scogliere di una bellissima baia. Le onde si infrangono a pochi metri dal green della 7 e dal tee della 18 e il profilo dell’oceano si ammira quasi da tutto il campo. Se lo avete già giocato o avrete la fortuna di farlo nel vostro futuro, il panorama complessivo sarà chiaro davanti ai vostri occhi. Le ragioni naturali della sua bellezza e quelle tecniche del suo disegno sembrano infatti fondersi in un prezioso equilibrio e, anche se quest’anno celebra il suo primo secolo, il percorso porta benissimo tutti i suoi anni. 

Molto tempo dopo la sua creazione Jack Neville, colui che lo disegnò con un pizzico di aiuto da parte di Douglas Grant, così raccontava al San Francisco Chronicle: “Era tutto lì, in bella vista… Anni prima che fosse costruito potevo immaginare questo luogo come un links, perché la natura lo aveva creato per quello scopo e nient’altro. Tutto quello che dovemmo fare fu tagliare alcuni alberi, installare alcuni irrigatori e seminare un po’ d’erba.” 

In realtà al disegno originario del 1919 si sono aggiunte le modifiche di altri grandi del golf.  Alister MacKenzie mise mano a bunker e green prima del ‘29; William Herbert Fowler trasformò la 18 in un par 5 di 486 metri; nel ‘98 Jack Nicklaus realizzò l’attuale buca 5; nel ‘99 Arnold Palmer apportò modifiche a sei buche (1, 2, 4, 6, 15 e 18), aumentandone la lunghezza e risistemando nuovamente i bunker al fine di alzare l’asticella per i professionisti del nuovo millennio. Come se già non bastassero il taglio raso e senza pietà dei fairway attorno ai piccoli green e il vento a complicare le cose… 

Le prime tre buche non sembrano così impegnative ma è solo un’illusione. È vero che alla 1, par 4 di 347 metri dai tee dello U.S. Open, basta non tagliare l’angolo per non correre troppi rischi, ma il calanco che attraversa la 2 (par 5 di 471 metri) e la 3 (par 4 di 369 metri) e la festuca che contorna i bunker costarono a Dustin Jonhson la prima posizione nel round finale dell’U.S. Open 2010, con un triplo bogey, e di uguale misura penalizzarono Tiger Woods nel 2000. Dalla 4 alla 10 è l’oceano a tenerci compagnia sulla destra e qui iniziano il divertimento e la meraviglia. 

La 4 (par 4, 302 metri) si srotola tra il mare e una lunga serie di bunker sulla sinistra, per non parlare di quelli intorno al green. Eppure qui Jack Nicklaus nel U.S. Amateur del ‘61 fece birdie per due volte di fila e nel 2010 Dustin Johnson realizzò un eagle nel terzo giro. 

La 5 (178 metri) è uno dei più difficili par 3 di tutto il PGA Tour e persino Jack Nicklaus che la disegnò nel ‘98 dovette cedere un bogey nello U.S. Open del 2000. Il piccolo gioiello che si affaccia dalle scogliere che sovrastano la baia di Stillwater Cove mette a dura prova il coraggio e la concentrazione di ogni giocatore, anche perché dal suo green in poi si gioca sulla “Arrowhead”, la “punta di freccia” che si slancia nell’oceano con le successive tre buche in un capolavoro di estetica, sapienza tecnica e meraviglia naturale. E qui uno sguardo alle onde può offrire regali inaspettati perché sono frequenti gli avvistamenti di cetacei più o meno grandi. 

La 6 (par 5 di 478 metri) va gestita con linee ben dritte e attenzione ai bunker sulla sinistra. Facile a dirsi… A meno che non siate il Tiger Woods che nel 2000 fece sbottare Roger Malbie, commentatore NBC, in un: “Non è proprio una competizione leale.” Tiger eseguì un colpo cieco da 187 metri in salita verso il green, con un ferro 7, da un rough alto 16 centimetri e dietro a un albero di sei metri. 

L’iconica 7 è il par 3 più corto di tutto il PGA Tour (99 metri). Qui Sam Snead preferì ottenere il par con tre putt consecutivi, sparando il primo colpo lungo la strada sterrata verso il green, piuttosto che tirare nel vento un con un ferro. E quel giorno fu l’unico a finirla nei colpi canonici. Eddie Merrins invece fece hole in one al Bing Crosby Championship del ‘65 con un ferro 3. La cornice della roccia e dell’oceano è davvero incantevole e chi riesce a non farsi un selfie qui è stoico oltre ogni misura. 

Seguono i tre par 4 della 8 (391 metri), della 9 (480 metri) e della 10 (452 metri). I primi due sono tra le buche più difficili di tutto il campo. Sul primo il vento la fa da padrone e occorre arrivare al green, in forte pendenza, volando sopra scogli e spiaggia. Sul secondo il par è possibile solo eseguendo linee perfette. Il terzo si gioca lungo il profilo della scogliera che continua a regalare immagini da sogno. 

Con la buca 11 (356 metri, par 4) inizia il lungo ritorno verso la clubhouse e ancora il vento e le forti pendenze dei green costituiscono le principali difficoltà. Così è anche per la 12 (184 metri par 3) i cui profondi bunker sfalsati davanti al green danno una prospettiva errata della distanza e ne fanno quello che oggi è considerato il par 3 più difficile di tutto il PGA Tour. Infine la 13, che con i suoi 406 metri (par 4) tutti in salita è più lungo di quanto dichiari lo score e in aggiunta possiede il green con la superficie più veloce di tutto il campo. 

La 14 (530 metri, par 5) è un enigma. Il suo dogleg a destra è difeso soltanto da alcuni bunker ma l’handicap sullo score dice 1 per i comuni amateur mortali, sebbene anche i pro abbiano avuto i loro grattacapi. Qui Phil Mickelson una volta segnò un 11, Arnold Palmer 9 e si contano altre quattro vittime con lo stesso score all’AT&T Pebble Beach Pro-Am del 2010. 

La 15 (363 metri, par 4) ridà un po’ di fiato e se si seguono alla lettera i consigli del caddie il par è alla portata. Forse è per questa ragione che nel 2000 alla AT&T Pebble Beach Pro-Am, Tiger Woods fece un eagle che passò alla storia. 

Con la 16 (368 metri, par 4) ci si riavvicina all’oceano giocando normalmente contro il vento e ancora una volta occorre trovare il giusto equilibrio tra forza e ragione, passando sopra e oltre il bunker centrale ma evitando di tagliare il dogleg sulla destra. 

Con la 17 (190 metri, par 3) si ritorna all’estremità occidentale di Stillwater Cove. Ma qui si è alla fine del percorso, il luogo delle imprese grandi o disperate. Nel primo U.S. Open giocato nel 1972, Nicklaus rimontò Watson con un chip che sbatté sull’asta e poi si infilò per il birdie. Tom però rispose con un altro birdie altrettanto difficile vincendo il major. Qui Palmer buttò al vento la vittoria nel torneo del ‘64 quando la sua pallina finì tra le rocce e l’acqua della battigia, e lui si ostinò a giocarla fino segnare 9, scoprendo poi che il barman della Tap Room, il grill bar della clubhouse, aveva inventato un nuovo cocktail: il “Palmer on the Rocks.” 

La 18 (496 metri, par 5) è il coronamento di tutta la bellezza sparsa a piene mani sul campo. Arnold Palmer le ha conferito il proprio stile: un ampio arco che giunge fin sotto la clubhouse, con il mare a sinistra e un fortino di bunker a destra a catturare l’arrivo del drive, poi altri bunker a sinistra per impegnare il secondo colpo e infine due alberi accanto al green. Le sono state dedicate innumerevoli parole e quelle di Tiger Woods non sono assolutamente esagerate: “Pebble Beach ha probabilmente la più storica e pittoresca 18 al mondo. Chiunque veda una foto presa dal tee e lungo tutta la buca, sa che cosa sia. Gente che non ha mai giocato a Pebble Beach sa cos’è”. Ed è per tutti questi motivi che unanimemente viene considerata fra le migliori buche finali nel golf.