ALP n° 134 June 1996 – Text pages 42 – 49
Sull’intero arco alpino aleggia un’ombra. Ad alcuni appare minacciosa, per altri è un sogno da realizzare nel prossimo futuro. È il grande Parco delle Alpi: provocazione, progetto, sfida di associazioni ambientaliste e amanti della natura a secoli di storia umana trascorsi nella trasformazione del paesaggio alpino. Questo è il sogno. Fortunatamente, grazie a direttori e tecnici, guardaparco e guardie forestali la realtà odierna presenta aspetti confortanti. Il volo dell’aquila non è più così solitario, la popolazione di stambecchi e camosci è in lenta ma costante crescita e si studia come accrescerne gli areali, per un azzardo fortunato del destino, ed un complesso lavoro umano, il gipeto ha ripreso a volare sulle Alpi italiane; il lupo, bontà sua, ha fatto tutto da se risalendo l’Appennino verso quegli spazi alpini e centroeuropei che gli furono negati nei secoli passati; si studia con ottimismo come rinvigorire la progenie dell’orso alpino.
Del resto quattro parchi nazionali, oltre trenta parchi regionali e altrettante riserve naturali per un totale di 750.000 ettari di territorio protetto in vario modo sarebbero già un ottimo punto di partenza. Se ad essi aggiungiamo i parchi francesi del Mercantour, della Vanoise e della Savoia, quello svizzero dell’Engadina e quello austriaco degli Alti Tauri, per citare solo i più estesi, potremmo ben dire che le premesse di un futuro Parco delle Alpi parrebbero ormai alquanto concrete.
Tuttavia l’arco alpino si trova a vivere contraddizioni estreme: è la catena montuosa più antropizzata del pianeta e confina con regioni altamente popolate. Basti pensare che la densità media di popolazione delle regioni settentrionali è all’incirca doppia di quella media giapponese (dati UE).
Per le sue bellezze naturali le Alpi sono una delle mete preferite dal turismo mondiale. secondo l’UICN (organismo Onu: Unione internazionale per la conservazione della natura) ogni anno oltre cento milioni di turisti invadono l’arco alpino europeo spendendovi 60 miliardi di dollari, ovvero ¼ dell’intero giro d’affari del turismo mondiale. Le presenze turistiche annuali hanno infatti assunto in questi ultimi anni dimensioni impressionanti: 1,5 milioni di presenze nel Una parte considerevole di questo flusso turistico si rivolge proprio alle montagne ed ai parchi italiani. Parco nazionale del Gran Paradiso, 3 milioni nel Parco nazionale dello Stelvio, 700.000 nel Parco Adamello-Brenta (dato riferito al solo periodo estivo). I centri visita dei parchi hanno le affluenze dei grandi avvenimenti: oltre 50.000 nel Gran Paradiso, altrettante nello Stelvio e la metà circa di queste visite avvengono nel solo mese di agosto. Vi sono poi alcuni luoghi che presentano situazioni estreme come la cascata del Nardis, in VaI di Genova nel Parco dell’Adamello-Brenta, che è visitata ogni anno da 100.000 turisti. La situazione dei parchi alpini italiani non menzionati è comunque pressoche identica: fatte le debite proporzioni si rilevano presenze analoghe. Tutti insieme organizzano incontri, proiezioni, gite, escursioni e quant’altro ancora per un pubblico di oltre 200.000 turisti. E si può calcolare in circa 5 milioni i turisti che visitano ogni anno i parchi naturali italiani delle Alpi.
Istituiti per proteggere le specifiche bio-diversità rischiano di vedere compromesso tutto il loro lavoro di gestione.
Citiamo qui solo due esempi. “L’impatto ambientale nel Parco del Gran Paradiso è rilevante sia alle quote basse sia a quelle elevate – lamenta Giulio Zanetti (servizio turismo e comunicazione) – la folla degli escursionisti costringe gli animali a rifugiarsi in una fascia di altitudine compresa tra i 2.200 e i 3.500 metri”. A soffrirne sono soprattutto due valli, l’alta Valle Orco e la Valnontey “che hanno un ruolo importantissimo nei flussi migratori degli animali selvatici tra il Parco del Gran Paradiso e quello, francese e confinante, della Vanoise”. Dall’altra parte dell’arco alpino sino a pochi anni fa il lago di Tovel, ogni agosto, vedeva arrossarsi le sue acque a causa di un’alga particolare e di un delicato e unico equilibrio ecologico, ma 50.000 visitatori all’anno costituiscono una grossa sfida ad ambienti ben più resistenti.
Due casi estremi ma non isolati. Del resto non solo i parchi più maturi soffrono di questi problemi. Potremmo elencarne altri che affliggono un po’ tutti.
Molto spesso i finanziamenti sono concessi agli enti di gestione ma di fatto ne è impedita la loro utilizzazione; il tempo mediamente necessario perché dalla data di nascita legislativa di un parco si arrivi a una gestione di fatto del territorio si aggira intorno ai tre-quattro anni; anche le meglio intenzionate gestioni per obbiettivo” si devono arrendere di fronte alle ritualità ministeriali; i piani di gestione prima di confrontarsi con le priorità faunistiche e forestali si devono misurare con la cronica carenza di personale; le leggi che consentono l’utilizzo del volontariato sono ancora in alto mare. Alcuni parchi “maturi” come quello dello Stelvio stanno affrontando una difficile fase di transizione gestionale mentre altri, “giovani” come quello delle Dolomiti Bellunesi, stanno muovendo i primi passi tra dilemmi di non poco conto: parco della natura o parco degli uomini? Quali priorità e quali scelte?
La situazione in cui si trovano questi ultimi, istituti con legge 394/91, è sicuramente emblematica di una situazione generale difficile e contraddittoria.
Martino, direttore del Parco delle Dolomiti bellunesi, lamenta innanzitutto l’assenza di una vera “cultura di parco” a tutti i livelli. “Il progetto politico di finanziare le aree parco per far restare o ritornare gli uomini in montagna attraverso il finanziamento dei parchi è ad alto rischio. La montagna non ha bisogno degli uomini per vivere, queste sono qui da molti milioni di anni e qui resteranno molto più a lungo dell’uomo. La trasformazione dell’area attraverso lo sviluppo economico connesso al parco è complessa poiché l’ente parco egli enti di gestione del flusso turistico offrono al visitatore prodotti diversi, talvolta incompatibili. Si può certo affidare la gestione di alcuni servizi a organismi esterni coinvolgendo così le comunità montane, ma è necessario studiare un nuovo modo di lavorare assieme e purtroppo anche questa volta ci si è illusi che sarebbe bastato fare una buona legge per far funzionare le cose”.
La pur giusta necessità di trasparenza nell’amministrazione è nemica della velocità. “La legge è del ’91 – prosegue Martino – gli adempimenti burocratico/legali sono terminati nel ’93, il consiglio direttivo è in carica da un anno, io sono direttore da pochi mesi. Ho sufficienti fondi per assumere personale ma non sono ancora in grado di farlo e lavoro con due collaboratori “prestati” da altre amministrazioni: siamo in tre per gestire 32.000 ettari. Ho avviato gli studi del piano di gestione faunistica e forestale ma solo a fine ’96 sarò in condizioni di iniziare concretamente i lavori anche se, per il momento, non saprei a chi affidarli”.
Cultura di parco. Potrebbe essere il nuovo slogan di politici, amministratori, cittadini benpensanti sia che essi vivano del parco sia che si presentino sotto le vesti di consumatori”. Dopo tutto la crescente richiesta di turismo “verde” li ha trasformati da “oasi di protezione” a “bene strategico” per l’economia nazionale.
Ma quali contenuti dentro allo slogan? Per il momento gestione faunistica e forestale, pur con tutti gli sforzi prodotti, rischiano di venire compromesse dal flusso enorme dei visitatori la cui gestione è una priorità assoluta.
Istituiti per proteggere animali e foreste dalla violenza e dall’indiscriminata attività economica dell’uomo i parchi rischiano di soccombere per eccesso di servizio; per troppo amore, un amore spesso cieco, talvolta persino ottuso.
In una recente indagine condotta dal Parco naturale Adamello-Brenta quasi i140% degli intervistati dichiarava infatti di aver scelto il parco perché convinto “che la natura al suo interno sia più incontaminata”.
Raramente, tuttavia, questa enorme quantità di persone, che trova svago e refrigerio in valli e pinete, è consapevole della fragilità degli equilibri ecologici alpini, ne immagina certo le dimensioni dell’impatto ambientale che globalmente viene esercitato sul territorio dalle folle di turisti. Su questo punto i pareri degli operatori dei diversi parchi sono pressoché unanimi: stabilire delle regole! Trovare un equilibrio.
Anche la “fauna turistica” è varia e complessa e si può dividere in due grandi categorie: il turista semplice e quello evoluto. Annibale Mottana, presidente del Consorzio che gestisce il Parco nazionale dello Stelvio, ne delinea i profili: “il turista semplice è quello che “compra” il prodotto parco, generalmente vuole l’ albergo con pensione completa, frequenta i ristoranti della zona e tiene d’occhio la buona cucina, frequenta locali di divertimento, passa ore a rilassarsi al sole, si sposta principalmente in auto, visita il parco con il criterio del “mordi e fuggi” e talvolta non sa neppure di trovarsi all’interno di un parco”.
Il turista più evoluto invece ha esigenze più modeste dal punto di vista dell’ospitalità ma aspettative più precise e dirette all’approfondimento e alla vera conoscenza delle caratteristiche naturali del parco: “Desidera escursioni guidate e mirate a conoscere specifici aspetti dell’ambiente ed è più consapevole della funzione “ecologica” del parco; desidera avere un dialogo con chi gestisce il parco ed è disposto a essere indirizzato comprendendo bene il delicato rapporto tra fruizione e conservazione”. Alcuni recenti studi effettuati sia in Trentino che in Piemonte hanno dato un profilo simile di questo visitatore: economicamente di ceto medio, con istruzione almeno superiore, lavora prevalentemente nel terziario, frequenta periodicamente i parchi, abita maggiormente in città; impiegati, insegnanti e liberi professionisti compongono da soli il 50% di questo campione mentre anche il livello di istruzione dei non occupati è alto.
Quest’ultimo quadro presenta aspetti confortanti: resta da capire come si possa dialogare con questi potenziali collaboratori.
Le richieste espresse invece dalla prima categoria di visitatori, i “mordi e fuggi”, sono molteplici e la pressione sulle strutture ricettive è elevata. Da anni vi sono forti pressioni affinché sia permesso allargare e ammodernare le centinaia di rifugi alpini ed escursionistici che si trovano all’interno dei parchi stessi: meno camerini comuni e più stanzette, possibilmente con fornitura di lenzuola, servizio igienico e doccia, servizio di bar ristorante, magari alla carta. Si può certo immaginare quali problemi di smaltimento dei rifiuti e reflui di scarico proprio là dove si alimentano le falde acquifere comporterebbe l’ampliamento dell’ospitalità e dei consumi!
Per impedire che alcune situazioni degenerino pericolosamente si sono introdotte le prime limitazioni. Un paio di esempi. Patrizia Rossi, direttore del Parco delle Alpi Marittime, ha imposto un totale divieto di accesso nel Vallone del Valasco per tutelare una delicata operazione di reintroduzione del gipeto. Franceschini, direttore del Parco Adamello-Brenta racconta di come sono stati “costretti a regolare gli accessi: Al Lago di Tovel, in Val di Genova, alle cascate del Nardis e in Vallesinella hanno introdotto un regime di regolamentazione, controllo degli ingressi e gestione dei parcheggi”. In Val d’Ambiez, nella parte meridionale del parco hanno “addirittura impedito l’accesso alle auto private facilitando però l’ingresso con automezzi navetta dell’ente parco”. Questo servizio indispensabile poiché la strada è molto stretta ha tuttavia un costo che non è completamente remunerato dai visitatori. Risulta quindi un costo per il parco che è remunerato solo in termini di preservazione dell’area.
Esperimenti, tentativi di capire e gestire. Non è da credere che la situazione negli altri circa sessanta parchi e riserve alpine italiane sia molto diversa.
Tutti insieme, i parchi, gestiscono il l0% del territorio della catena montuosa costituendo una risorsa incalcolabile sia in boschi (controllo idrogeologico) che in pascoli (economia locale). Sono un inestimabile patrimonio paesaggistico e una fonte essenziale per il riequilibrio ecologico per le aree limitrofe. Un valore da lasciare in eredità ai nostri figli, “alle generazioni future” – come recita l’atto costitutivo dei parchi nazionali statunitensi – e quest’ultima non è cosa di poco conto.